domenica 28 dicembre 2014

Nuovi misteri napoletani

Il sole cerca di penetrare dappertutto. A Napoli è così: si presenta alla porta, entra senza bussare, squassa negli angoli, si ficca nelle fessure, compone lame spesso taglienti. Ma questo suo gran darsi da fare non genera che ombre, ombre sempre più profonde, oscurità impenetrabili. Più cerca di dare luce, più il buio diventa devastante, incomprensibile, osceno.
Mi alzo il bavero perché il freddo è pungente. Il sole mi si stampa in faccia e m'impedisce di vedere. Procedo spedito verso Porta Capuana, una delle porte di questa città che continuo a non capire, che continuo a detestare e ad amare senza ritegno. Porta Capuana si apre, invita a entrare. Non mi faccio pregare.
Le lingue si mescolano rapidamente e i colori straripano. Una povertà sottile, odori di carne, sguardi che si accalcano. Un suq che sbalordisce. Entro in un mondo arcaico che non ha niente di primitivo. Anzi, qui il linguaggio è tutto - continua a cambiare. I suoni delle voci prevalgono sul senso di ciò che dicono. Una babele incantevole.
Risalgo via Tribunali. Passo spedito anche quando rasento il Pio Monte della Misericordia. Sento le urla di gioia della donna che allatta, dell'uomo che beve, del vecchio che mangia.
Vivo immerso in questo sensualissimo flusso e non riesco a staccarmene. Napoli t'insegna questo, ti ripete di continuo che sei dentro, che ne fai parte, che una continuità fisica ti lega a tutte le cose.
Ho pagato e continuo a pagare per questa furia con la quale vivo il mondo, per questo corpo che non ha confini, che avvolge tutto. La mia sessualità indeterminata e liquida non mi permette, ovviamente, limiti. Ho pagato, in qualche modo. Perdendo la famiglia, ad esempio. E perdendo la possibilità di mantenere in vita un sentimento che, se sottomesso, diventa comodo: l'amore.
Dell'amore, tanto per dire, non riesco a notare se non le divergenze, le contraddizioni, le violenze, i malesseri. Amare è cosa eccentrica e, talvolta, quando mi capita di finirci dentro, succede puntualmente che, da questa palude, io ne venga fuori perfettamente pulito - non so come dire - asciutto. Così mi chiedo dove sia finita la melma che, fino a un attimo prima, ricopriva il mio corpo. Niente da fare, non c'è più traccia. Rimane, così, la sensazione che sia il sesso l'unico collante preciso, inevitabile.
Non riesco a uscirne fuori. In compenso sono arrivato. Il palazzo è lì e il portone quattrocentesco è, come al solito, ben serrato. Nessun tasto da poter premere, nessun citofono da utilizzare. E' il quartier generale. E la cosa che amo di più del mio lavoro è proprio questa indeterminatezza, questa improvvisa pulsione, questa impossibilità di poter sapere prima quale nefandezza mi verrà chiesto di compiere, questa volta. Sono un esperto di massacri e non me ne dispiace affatto. Sento il clic impercettibile della serratura che scatta. La porta, dolcemente, si apre.

-- continua, credo.

venerdì 18 aprile 2014

TRUE LOVE

Sapete cos'è il vero amore?
Per alcuni - diciamo: per il mio personaggio, Bruno Keller - l'amore è una cosa così: pace.
Tranquillità. Coerenza. Sincerità. E... fatemici pensare... sì, intimità, condivisione. Complicità, ecco. Anche: esclusività - ma un'esclusività data per scontato, qualcosa che c'è, ovviamente c'è. C'è sempre, non bisogna discuterne.
Ah, ecco. Bruno e sua moglie non litigano mai. E, dopo vent'anni di matrimonio, oddio, non dico che si diano ancora del lei ma, insomma, sono proprio garbati l'uno con l'altro. E si vogliono un mondo di bene.
Lui dice sempre: scusa cara, mi passeresti, chessò, l'olio (ma non è che stanno girando una pubblicità e non è un vezzo: è che proprio appartiene al loro modo di essere e di fare).
E lei dice sempre: certo, caro. I no non le vengono giù bene, suonano, puntualmente, male.
La loro vita "amorosa", sentimentale, affettiva è proprio uguale a quella che leggi in certe riviste specializzate (tipo Sposarsi oggi o Il matrimonio perfetto).
Infatti sono sempre molto soddisfatti quando leggono queste cose e si confermano reciprocamente che le cose vanno proprio bene.
Sono, come dire, pacifici. No, non pacificati - sarebbe una cattiveria dire ciò. E' che proprio la loro vita scorre tranquilla. Come un lungo fiume tranquillo che, verrebbe da dire, non vede l'ora di arrivare alla foce per scoprire cos'è questo grande mare che li attende (a dirla tutta, hanno comprato anche un loculo dove, maniaci dell'ordine, soprattutto lei, ci hanno apposto già i loro nomi - un affare, un cimitero in pieno centro...)
Anche sessualmente le cose vanno benissimo: non fanno quasi più l'amore. Solo ogni tanto. Una volta ogni due o tre mesi, se se lo ricordano. Ma hanno letto - anche questo su una rivista specializzata... beh, se lo sono anche andati a cercare su google - che va bene così, che non conta la quantità ma la qualità, che sono importanti i ritmi condivisi, che non c'è una regola generale. Che se va bene a lei e se va bene a lui, allora l'unione è perfetta.
Anche i rapporti con l'esterno sono ben scanditi e pacificamente (oddio, torna questa parola!) approvati.
Lui gioca a tennis una volta la settimana, con l'amico di sempre.
Lei ha l'abbonamento al teatro (il venerdì sera) e al cineforum (il martedì sera): gli spettacoli e i film lui preferisce vederli a casa, sul meraviglioso schermo 52 pollici, 3D.
Ah. Poi lei va a lezioni di tango. E la cosa straordinaria e giusta è che lui non prova un pizzico di gelosia: ha questa fiducia - ben riposta, eh - in lei che proprio non lo smuove.
E anche lei ha fiducia in lui. Le dispiace vederlo un po' stressato dal lavoro e dal fatto che nessuno ancora riconosca le grandi doti che Bruno si porta dentro da sempre. Ma lui è troppo gentile e garbato e dolce per poter sfondare... Gli basta il lavoro che ha.
Loro rappresentano la famiglia perfetta. I figli non son voluti venire ma loro si bastano. Tutta questa cosa qui, tutto ciò che ho scritto finora, non è la back story, è il set-up. Cioè, sono quelle informazioni che veniamo a sapere leggendo le prime pagine di un possibile romanzo che parla d'una storia d'amore.
E se ciò che avete letto finora è ciò che intendete per "storia d'amore" allora potete essere contenti e il libro potrebbe concludersi dopo una decina di pagine - se sbrodolo e sto lì a descrivere dettagliatamente, minuziosamente, i personaggi, utilizzerò dieci pagine, venti.
Ora non so ancora cosa porterà Bruno a cambiare la sua vita. Non riesco a capirlo esattamente. Magari una stupidaggine: una mattina si alza, sono cinque giorni che non si fa la barba, ha il viso tirato da un'influenza incipiente e, ecco lì, si fa una foto, allo specchio. E vede, nell'immagine ripresa, una persona che conosce appena.
Di lì in poi le cose dovrebbero cambiare. E' necessario che entri un altro personaggio in scena, qualcuno che violenti le carte in tavola.
Dove mi piacerebbe arrivare? Boh, non so ancora.
A qualcosa del tipo: gelosia, mania, persecuzione, odio, angoscia, sesso, contraddizioni, rabbia, possesso, malattia, golosità, ansia, voglia di vita, velocità, sorsate d'aria, polmoni che si allargano, notti insonni, bui profondi e illuminazioni estreme, botte e graffi, un fare l'amore dove non puoi staccare le labbra dalle labbra dell'altro, morsi quindi, piacere, godimento, desiderio, paura di essere traditi, notte, inseguimenti, disperazioni, viaggi, treni, zingari che leggono le mani, sangue forse, debolezza e altre mille parole così, di questo genere, che messe tutte assieme ne generano una sola. Quale? Non so. Aiutatemi a dirla.

Ieri ho scritto un post - del quale mi vergogno profondamente tanto è scritto male. Se fossi un vero scrittore, un professionista, lo cancellerei, lo nasconderei, forse per rispetto del pubblico.
Ma io pubblico non ne ho. Ho amici, forse, che leggiucchiano quello che scrivo e manco me lo dicono, per non mettermi in imbarazzo.
Comunque, fatto sta che ho scritto questa manciata di righi: lì ho parlato proprio di questa cosa, dell'impossibilità, sempre più frequente, di trovare parole adeguate per dire di certi sentimenti, di certi moti dell'animo.
La sensazione è che proprio non ci siano le parole giuste, non esistano. E non è una mia incapacità (potrebbe benissimo esserlo, eh) ma è che proprio una semplificazione assurda dichiarare questa cosa qui "amore". Perché se era amore quello che provava Bruno per la moglie allora non è amore questo che prova per quest'altra donna. E, viceversa, inutile dirlo.
Ma se è amore in tutti e due i casi, allora la parola è terribilmente ambigua e non credo che con Wikipedia qualcuno riesca a disambiguarla (si dice così, no?)

Se riuscirò, un giorno o l'altro, a narrare questa storia, allora forse avrò trovato la parola giusta.
Intanto non mi arrendo e continuo a cercare, ad andare avanti. Anche nel silenzio di questa mia scrittura che, in qualche modo, mi parla quasi fossero i toni prodotti dagli stessi tasti, dallo stesso schermo che riflette un'immagine di me che riconosco a fatica, a dire la propria.

giovedì 17 aprile 2014

SE LA PAROLA AMORE NON BASTA

Ah, ma questa non è una lunga e noiosa dissertazione. E' solo un promemoria, qualcosa che sta lì a ricordarmi che devo rimettere mano a un concetto che mi sembra, ultimamente almeno, terribilmente stretto e... e presuntuoso, così pieno di sé, certo di indicare qualcosa, una direzione, una strada e un senso.
A me questo senso sfugge e la parola, così come è, non mi basta, mi sta stretta, perde di tono, manca d'interesse. La parola amore, dico.
Certo, questa cosa m'imbarazza. Volevo scrivere, vorrei scrivere, una storia d'amore e, ora, sto qui a mettere in discussione il termine stesso - il termine è ciò che conclude, no?
Oppure posso arrendermi, lasciare che il senso debordi, s'impenni, diventi un'altra cosa, magari oscena, ovviamente perversa. rimango incastrato in questa parola - amore - e non oso fuggire.
Mi fermo. Ci penso.
Mi prendo una pausa lunghissima.
Mi serve un'altra parola, lo so, me lo giuro.
Se devo parlare d'amore allora ho bisogno che la parola si allarghi, lasci entrare altra linfa, si riempia come un fiore che alla fine, così facendo, s'ingozza e si strozza. Mi serve, insomma, che questa parola un po' muoia e finalmente rinasca in modo che, nel mio testo, a qualcosa possa infine servire.
Come al solito bisogna morie per poter, finalmente, tornare.

domenica 13 aprile 2014

NULLA SARA' PIU' COME PRIMA

Le storie d'amore si muovono in questi universi assoluti.
E vengono narrate perché, puntualmente, tali affermazioni vengono messe in crisi - derise, strapazzate, annullate.
Eppure è questo che le storie d'amore dovrebbero narrare: eventi decisamente terminali, irreversibili, definitivi.
"Se facciamo l'amore, non si torna indietro" e le percezioni stesse delle cose cambieranno. Ci immergeremo in una liquidità amniotica e nessuno riuscirà più a raggiungerci. Saremo definitivamente persi - almeno per un mondo che, ora, è vecchio, superato.

Allora, vi siete decisi? Il sesso sta per diventare la chiave di volta d'un processo a catena che non riuscirete più a governare. Potete alzarvi, riprendere le vostre cose e fuggire via. Ritornerete al vostro mondo abituale e tutte le cose rimarranno al loro posto. Riconoscerete gli oggetti per quel che sono - cose morte, no? Sarete pacificati all'interno di un territorio che ben conoscete e che non vi fa nessuna paura.
Decidete.

Oppure una realtà ignota vi si aprirà davanti. Perderete la serena coscienza che vi appartiene. Il comodo alveo sparirà.
Non avete molto tempo per scegliere.
Ci interessano altre storie? La semplice linearità ci attrae?
Niente da fare.
Avete deciso.
L'abbracciate forte e la stringete a voi. Il gioco ha inizio. Nulla sarà più come prima.

lunedì 7 aprile 2014

UN INCONTRO D'AMORE

Cerco di far incontrare due personaggi.
Quello di lei mi piace molto. Lui un po' meno. Molto meno.
Lo vedo bene, durante questa premiazione. E' uno dei giudici e me lo trovo stravaccato su una poltroncina rossa, la barba incolta, un sorriso ebete stampato su una faccia da schiaffi che non diresti possibile, un jeans e una camicia con il colletto e i polsini sdruciti tanto a quella distanza chi vuoi che veda. E lo capisci benissimo che non c'è, che ha la testa altrove, che è tutta una finzione e che nemmeno si ricorda a chi ha dato i suoi voti e com'erano le opere che stanno premiando. Avrà, come al solito, fatto a suo modo, uno sguardo veloce, con la presupponenza di chi sa che è tutto inutile, che una  cosa vale l'altra, che il caso domina su tutto, che niente ha veramente senso.
E, naturalmente, non è vero, perché il cuore di qualcuno che ti sta di fronte palpita e freme e sta lì ad aspettare che, uno dopo l'altro, vengano scanditi i nomi dei vincitori e spera e ancora spera che il prossimo sia il suo e quando sente esattamente pronunciare il suo cognome una lettera dopo l'altra, con tutte le vocali al posto giusto ecco che le vien su un sorriso e dentro esulta ed esplode qualcosa nel centro del petto che saranno pure scariche elettriche o sinapsi che vanno in tilt ma il cuore va comunque a mille ed è tutto un tripudio di bei pensieri impossibili da decifrare e da raccontare e da mettere assieme, un qualcosa del tipo allora valgo, per qualcuno valgo, e i segni che vado a mettere assieme allora hanno un senso nel senso che piacciono, a qualcuno almeno piacciono. Insomma, ora, davanti a te, davanti ai tuoi stupidi occhi, qualcuno è felice anche grazie a qualche tua stupida intuizione, anche grazie a un voto che hai dato, anche se poi non sarai tu a distribuire gli attestati, a dire chi vale e chi non vale.
Tu stai lì,sbracato, a festeggiare un compleanno del quale nessuno è a conoscenza, che non vuoi condividere perché questi tuoi cinquant'anni belli tondi tondi pure ti stanno un po' sulle scatole e non sai che fare perché continui a non ritrovare quella cosa che tu chiami senso.
La cosa incredibile è che, anche grazie a te, ci sia questa felicità che in un punto impreciso della stanza è là che palpita e che ora, dopo tutto questo tempo, pure ti farebbe piacere poter individuare e nello spazio ricreato dalla memoria poter dire la vidi, vidi il suo piacere, lessi negli occhi il suo entusiasmo, sentii quasi il battito del suo cuore che mi diceva ti ringrazio perché anche grazie a te, oggi, in questo momento, sono veramente felice.
Ora fai uno sforzo e dici mi ricordo che avevi quel cappello verde da fantino e ci rimani male se lei ti ha detto no, non credo che avessi quel cappello. Ma tu, testardo, vuoi convincerti che quel cappello lo aveva e che ricordi perfettamente anche l'uomo che l'accompagnava - e menti talmente a te stesso che pensi di ricordare addirittura com'era vestito lui, ma non è vero, non puoi ricordare perché semplicemente non avevi fatto caso e non avevi visto, tutto preso dal tuo stupido riflettere su te stesso, ripiegato a pensare e a maledirti per ciò che non sapevi e non sai fare - amare.
Entri in scena così, subito, malmesso. Fai una brutta figura. Ho scelto per te un nome - ti chiamerai Bruno Keller e sei napoletano.
Lei, ovviamente, qui non la vediamo, perché avremmo dovuto vederla attraverso i tuoi occhi e, allora, di che parliamo?
La vedremo comparire mesi dopo quando, finalmente, te la troverai davanti e la guarderai e, almeno questo, saprai collocarla in uno spazio, in un posto, seduta su una poltroncina che, ora e per sempre, sarà la sua.
Da qui in poi saprai ricostruire dettagliatamente ogni suo movimento, ogni vostro passaggio: finalmente l'hai vista, l'hai notata, ti sei appuntato rapidamente certi suoi dati e, ora, con colpevole ritardo, si fisserà per sempre nei tuoi ricordi, sarà parte integrante dei tuoi ricordi e diventerà, per sempre, parte di te, parte cellulare, intendo, biologicamente innestata nelle tue fibre. Non potrai più tagliarla via, qualunque cosa accada.
Lo vedi come sei? Un personaggio antipatico, che non dovrebbe mai assurgere a protagonista, qualunque sia la storia. Me lo aveva detto già Massimo, che è uno scrittore vero e serio: i tuoi personaggi sono antipatici. E questo è un problema narrativo non secondario. Non ti viene proprio di inventare protagonisti simpatici ed empatici: in che modo pretendi che il tuo lettore entri nella storia? Ecco perché nessuno ti pubblica.
Ma allora, gli dico, e se questa storia fosse la più bella storia d'amore? Se il protagonista è così antipatico, cosa ci posso fare? Dovrei mentire? Trasformarlo? Reinventarlo? Dimmi tu.

mercoledì 26 marzo 2014

DIECI PROBLEMI IN AMORE

Scrivere una storia significa raccontare un problema.
Le storie che non contengono problemi non sono storie, sono resoconti, descrizioni, territori che affascinano relativamente, per poco tempo e che, per lo più, non generano emozioni in chi ascolta.
Inutile dirlo: le storie d'amore non sfuggono a questa regola.
Vi propongo dieci problemi possibili che potreste utilizzare nelle vostre storie d'amore. Sono realtà tematiche che già conoscete bene ma che può essere comodo ripetere, rivedere, tenere a portata di mano.
Non hanno un ordine preciso: questo decalogo non indica priorità o preferenze e non dovete ritenerlo esaustivo - anzi, se vi vengono altre idee, altre ipotesi, comunicatemele, se vi va.

Problema 1: mi annoio.
Chi si annoia, in amore, merita attenzione. La sua noia diventerà, per l'amante, un problema. Lo sapete bene: si annoiava Madame Bovary e si annoiava Maria Davalos (recuperate la sua storia da qualche parte!). La noia fa brutte sorprese, non pensate?

Problema 2: non mi vuoi.
Non è necessario ricorrere al bellissimo testo di Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, però questo è un po' il problema dei problemi: amiamo e non siamo riamati. Funziona. Drammaticamente, dico, funziona.

Problema 3: non vogliono che io ti frequenti.
Beh, rimaniamo in ambito classico. Ovvio ma non banale. State pensando alla storia d'amore più inflazionata al mondo, giusto? Massì, quel Romeo e Giulietta di cui tanto si parla... Oggi le cose sono cambiate. Ma non dappertutto...

Problema 4: devi partire.
Partenze, allontanamenti, fughe. C'è una forza che spinge altrove, una motivazione che obbliga a non restare. Un altro atto doloroso per il vostro personaggio. Il web ci salverà? I viaggi low cost risolveranno il problema?

Problema 5: sono già impegnato/sei già impegnata.
Che colpa ne abbiamo se siamo giunti in ritardo? Qualcosa ci naviga, anche questa volta, contro. Le statistiche ci aiutano, però. Le separazioni e i divorzi sono realtà risolutive. Ovviamente dipende dall'epoca in cui è ambientata la vostra storia. L'avete visto I ponti di Madison County? Erano gli anni Sessanta, in piena provincia americana. Realtà contadina. Desideri semplici. Forze tremende (che agiscono nell'animo umano...)

Problema 6: sono geloso.
Un sentimento che, almeno a scriverlo, sembra datato. Poi accendete la televisione e siete costretti a sentire di scempi operati sui corpi - spesso femminili. La gelosia è un mostro dagli occhi verdi, lo diceva quel tale...

Problema 7: un'altra presenza attraente.
Il carisma, il fascino. Difficile chiarire queste parole. Gli psicologi tentennano - anche se qualcuno prova a dare una definizione. Fate comparire un personaggio così, nella vostra storia, e il mondo cambia improvvisamente. Anche se, a fare la sua entrata in scena, è Hannibal Lecter.

Problema 8: siamo troppo differenti.
Non è uno scherzo: le differenze fanno male, complicano la vita, a volte rendono l'aria irrespirabile. Cosa volete farci? E' materia utile per una buona storia. Immagino differenze dinamiche, non banali, non scontate...

Problema 9: siamo cambiati.
Un altro film: E' complicato. Lui, dopo essersi risposato con una giovane da schianto, si reinnamora dell'ex moglie. Il finale giustifica l'assunto: siamo troppo cambiati, siamo altre persone, con sentimenti ormai diversi. L'asse temporale è un parametro ineludibile ma, spesso, dimenticato. Cosa succede... nel tempo?

Problema 10: non so amare?
In un cortometraggio che, puntualmente, ripropongo nei miei corsi di sceneggiatura (Emilie Muller), la protagonista racconta di un suo amico che "tutti amano ma lui non ama nessuno". Forse è il problema più difficile da arginare, da risolvere, quello più cattivo e violento. Senza che accada niente, sentiamo già odore di morte.

domenica 23 marzo 2014

UNA STORIA CHE NON RICORDAVO PIU'

Ho scritto, molto tempo fa, un romanzo, romanzo che ho pubblicato solo ora.
Ci avevo lavorato su a lungo, limando e correggendo, facendolo leggere e correggendo ancora.
Lo rileggo ora, certo di trovarci dentro le leggende della mia città, rivissute in tempi moderni. Un urban fantasy - così mi hanno detto che si chiamano le storie di questo genere.
Eppure tutto è cambiato: il racconto si è trasformato, lontano da me.
Mi accorgo, solo ora, di aver scritto l'ennesima storia d'amore - come a dire che tutte le storie d'amore non possono fare a meno di raccontare di fantasmi, di fantasmi che si muovono nella città, che attraversano la strada, che percorrono marciapiedi, che si fanno illuminare dai lampioni. E' una sera d'inverno e tu sei ancora là: ti vedi mentre sorridi a chi si avvicina. Ha una giacca rossa e le manca un bottone - te lo dirà lei prima che tu te ne accorga. Il mondo, in quell'istante, è scomparso. E se oggi ritorni in quel luogo e riprendi a muoverti sullo stesso marciapiede, le cose, tutte, tornano al loro posto, e lei è ancora lì, che, sorridendoti, ti viene incontro...

sabato 22 marzo 2014

LA CREPA - capitolo primo

Prima notte

M’ha svegliato un rumore sottile. Forse me lo sono sognato. E il cuore batte come un martello. Tum-tum, tum-tum, e non mi lascia dormire, riprendere questo sonno agitato che non m’abbandona da giorni. Una paura innaturale circola nelle mie vene e non ne capisco il motivo anche se, improvvisamente, per un attimo, smetto di respirare e ho la sensazione che qualcosa aliti nella mia stanza. Deve essere uno spiffero d’aria che scivola sotto l’anta della porta e attraversa questo basso nel quale sono rinchiuso e che m’ostino a chiamare “casa”. Respiro a fatica, in modo irregolare; stavo dormendo e qualcosa m’ha svegliato. Non sono venuto fuori da un incubo, ci sto cadendo dentro. C’è qualcuno nella mia stanza. Pensiero immotivato. Qualcuno è vicino a me e, nel buio assoluto, non posso vederlo e non voglio sentirlo. Sarebbe atroce percepire un respiro non mio.
Potrei accendere la luce ma è l’ultima cosa che voglio fare: io non voglio vedere NULLA. Mi sono svegliato con un sobbalzo, come se mi stessi strozzando, e, per un attimo, non ho riconosciuto il posto, il letto. Dove sono? Ora lo so.
Cerco di riprendermi, di mettere ordine tra i miei pensieri. Devo partire da ieri sera, da quello che ho fatto ieri sera, devo ricordare se ho chiuso bene la porta, se ho messo i fermi alle finestre. Maledizione, vivo in un basso! Sono sulla strada. Apro la porta e sono sulla strada. Niente scale, niente corridoi. Solo una stanza che dà sulla strada. Magari è entrato un cane, un cane randagio, un maledetto essere randagio, che io spero sia un cane, ma anche se fosse uno stupido cane, comunque morirei di paura. E poi, e poi, perché non guaisce, perché non abbaia, perché non ansima? Non può essere un cane. Che idiota! Potrebbe essere un topo. Se un topo ti azzanna ti uccide. Ti infetta e tu ti ammali e, poi, soffri e, poi, muori. Se ora, per un attimo, non respiro, sono sicuro che sentirò un altro respiro e se questo succede io impazzisco.

Sono paralizzato da un po’. Ho provato anche a non respirare ma non sento niente. C’è il mio respiro e basta, non c’è altro.
Ecco, ecco. Ancora una volta. Ho sentito qualcosa strisciare! Non posso sbagliarmi. Se ne avessi il coraggio, allungherei il braccio, afferrerei la cornetta, comporrei il numero e chiamerei la polizia. La polizia. Verrebbe la polizia a casa mia? Se dico che c’è qualcuno in casa, che ho beccato qualcuno in casa, la polizia viene. Ma se questo qualcuno mi sente, scopre che sono sveglio, finisce che mi uccide, che mi colpisce con un’accetta. In Delitto e castigo, il giovane uccide la vecchia con l’accetta e io, quella scena, me la sono impressa bene nella mente, si è stampata così forte nel cervello, che non posso fare altro che pensarci e ci penso anche adesso, quando un assassino sta scivolando sul pavimento e viene verso di me e sta per uccidermi. Ma io cosa ho fatto di male? Niente, io non ho fatto niente e questa è solo una terribile sensazione che sto vivendo. Forse sono rumori normali, un’eco di qualcosa che è lontanissima e che a me pare un’inquietante entità che scivola sul pavimento. Sì, deve essere così e, mentre allungo la mano, non mi succede niente, ecco, vedi?, io allungo la mano e non mi succede niente. La agito nel buio davanti a me e non mi succede niente. Afferro la cornetta del telefono e non mi succede niente. Compongo il numero. “Polizia? Polizia? Sì. Sono Giona Michetti… abito in Via del Carmelo 23. C’è qualcuno in casa, sì, è per questo che parlo a bassa voce. Forse è un ladro, non lo so. Sento… qualcosa che scivola sul pavimento… sì, scivola, struscia, non so… Mandate subito qualcuno? Vi ringrazio. Io aspetto qui. Non possiamo continuare a parlare mentre mandate qualcuno? Ah, ho capito…”

Mentre due poliziotti girano per il mio minuscolo appartamento, il commissario continua a guardarmi e a sorridermi. Rigira tra le labbra una sigaretta spenta da poco.
Quando hanno finito di perquisire, lui, che per tutto il tempo è rimasto in silenzio, con le mani nelle tasche del cappotto grigio, mi chiede se sono “forestiero”.
“Abito qui da poco… Però sono napoletano. Ho vissuto gli ultimi quindici anni a Pescara…”
“E perché è ritornato, signor Michetti?”
“Mi sono separato…”
“Ah.”
“Sì, ma… di comune accordo…”
“Lei la tradiva?”
“Mia moglie?”
“No, dico lei, lei!”
“Ah. No. Per niente. Non eravamo d’accordo su di un punto: lei voleva dei figli, io no.”
“Se n’è andato solo per questo?”
“No. Lei… ha iniziato a frequentare altre persone.”
“Capisco.”
Faccio un sorrisetto ebete. Cos’avrà capito questo tizio, questo ispettore, questo poliziotto che, invece di aiutarmi, cerca di ficcare il naso negli affari miei?
“E la casa?”
“Era dei miei nonni.”
“Ah, quei due erano suoi nonni.”
“Sì… da parte di madre. Perché?”
“Lo sa che vendevano sigarette di contrabbando?”
“Ah” faccio io. “No, non lo sapevo.” È vero: non lo sapevo. Che figura di merda! I miei nonni erano contrabbandieri! Ecco perché mio padre non li sopportava e non ci andava d’accordo!
“Non mi piace la sua famiglia, glielo dico francamente.”
“Ma io faccio l’insegnante…”
“Dove insegna?”
“Alla Giovanni Verga.”
“Cos’è? Un liceo?”
“No. È una scuola elementare.”
“Ma allora lei è un maestro!”
Sì, e allora? Questo mi sta sulle scatole e, se penso che dovrebbe difendermi, mi viene la pelle d’oca. Comunque cerco di essere educato: “Sono un maestro, ma sono laureato…”
“In cosa è laureato?”
Cavolo, non me ne fa passare una! Comunque dico: “In Lettere.”
Questa volta è lui a fare un sorrisetto.
“Signor Michetti, a casa sua non c’è nulla. Avrà sognato qualcosa… Avrà avuto un incubo. Oppure sono i rumori di una vecchia casa… da quanto tempo è qui, a Napoli?”
“Da quattro mesi.”
“Ecco, vede, troppo poco tempo. Questa è una città… vecchia, molto vecchia. Ci vuole tempo per capirla. Torni a dormire e cerchi di stare calmo. Il quartiere è infuocato. Ci sono troppe cose da tenere sotto controllo. Il male si annida dappertutto. Lei è una brava persona, ne sono convinto, ma, talvolta, anche le brave persone danno da fare… Torni a dormire. Non si inquieti più!”

Prima di uscire il commissario mi guarda per un’ultima volta. Mi lancia un sorrisetto d’intesa, forse ironico. Allora mi rimetto a letto, ma vestito, completamente vestito. 

giovedì 20 marzo 2014

PARTIAMO DAL FINALE

... perché chi legge storie d'amore vorrebbe che, in qualche modo, non finissero mai.
L'amore ha questo limite: ha senso solo se infinito. Le altre storie, quelle che hanno a che fare con la semplice quotidianità, proprio non ci interessano.
Certo, è una direzione, qualcosa che tende a questa realtà "che non muore". Ma a sentire gli psicologi e tutti gli altri, l'amore, prima o dopo, tristemente, mestamente, improvvisamente, stupidamente, finisce.
I romanzi d'amore servono a questo: a testimoniarci che non è vero, che un finale - nell'amore - non c'è...
Sembra quasi la prima regola: chi scrive storie d'amore dovrebbe raccontare solo di passioni estreme, di godimenti infiniti, di desideri capaci di non spegnersi neanche quando tutto è finito. Credete che questo sia possibile?