domenica 28 dicembre 2014

Nuovi misteri napoletani

Il sole cerca di penetrare dappertutto. A Napoli è così: si presenta alla porta, entra senza bussare, squassa negli angoli, si ficca nelle fessure, compone lame spesso taglienti. Ma questo suo gran darsi da fare non genera che ombre, ombre sempre più profonde, oscurità impenetrabili. Più cerca di dare luce, più il buio diventa devastante, incomprensibile, osceno.
Mi alzo il bavero perché il freddo è pungente. Il sole mi si stampa in faccia e m'impedisce di vedere. Procedo spedito verso Porta Capuana, una delle porte di questa città che continuo a non capire, che continuo a detestare e ad amare senza ritegno. Porta Capuana si apre, invita a entrare. Non mi faccio pregare.
Le lingue si mescolano rapidamente e i colori straripano. Una povertà sottile, odori di carne, sguardi che si accalcano. Un suq che sbalordisce. Entro in un mondo arcaico che non ha niente di primitivo. Anzi, qui il linguaggio è tutto - continua a cambiare. I suoni delle voci prevalgono sul senso di ciò che dicono. Una babele incantevole.
Risalgo via Tribunali. Passo spedito anche quando rasento il Pio Monte della Misericordia. Sento le urla di gioia della donna che allatta, dell'uomo che beve, del vecchio che mangia.
Vivo immerso in questo sensualissimo flusso e non riesco a staccarmene. Napoli t'insegna questo, ti ripete di continuo che sei dentro, che ne fai parte, che una continuità fisica ti lega a tutte le cose.
Ho pagato e continuo a pagare per questa furia con la quale vivo il mondo, per questo corpo che non ha confini, che avvolge tutto. La mia sessualità indeterminata e liquida non mi permette, ovviamente, limiti. Ho pagato, in qualche modo. Perdendo la famiglia, ad esempio. E perdendo la possibilità di mantenere in vita un sentimento che, se sottomesso, diventa comodo: l'amore.
Dell'amore, tanto per dire, non riesco a notare se non le divergenze, le contraddizioni, le violenze, i malesseri. Amare è cosa eccentrica e, talvolta, quando mi capita di finirci dentro, succede puntualmente che, da questa palude, io ne venga fuori perfettamente pulito - non so come dire - asciutto. Così mi chiedo dove sia finita la melma che, fino a un attimo prima, ricopriva il mio corpo. Niente da fare, non c'è più traccia. Rimane, così, la sensazione che sia il sesso l'unico collante preciso, inevitabile.
Non riesco a uscirne fuori. In compenso sono arrivato. Il palazzo è lì e il portone quattrocentesco è, come al solito, ben serrato. Nessun tasto da poter premere, nessun citofono da utilizzare. E' il quartier generale. E la cosa che amo di più del mio lavoro è proprio questa indeterminatezza, questa improvvisa pulsione, questa impossibilità di poter sapere prima quale nefandezza mi verrà chiesto di compiere, questa volta. Sono un esperto di massacri e non me ne dispiace affatto. Sento il clic impercettibile della serratura che scatta. La porta, dolcemente, si apre.

-- continua, credo.