lunedì 1 febbraio 2016

CONFESSIONI DI MARIA

A.D. 1590, 17 ottobre, ora prima

Ho portato con me Maria. L’ho asciugata, pulita, lavata. La pelle mi sembrava vibrasse. Ma io non potevo accarezzarla. Sulle labbra aveva quel sorriso dolorante che conoscevo bene. Quante volte l’avrò visto? 
La camicia verde chiaro tradiva la fattura maschile e io sapevo bene a chi apparteneva. Era in più punti lacera.
La luce filtrava da una finestra troppo alta ma quel corpo io lo vedevo benissimo. La carne pallida emanava un calore che sentivo solo io. Il suono delle voci e delle urla mi arrivava attutito e, in certi momenti, piombavo in un silenzio e stavamo così, soli, tu e io. Quante volte ci è capitato di rimanere in silenzio, senza profferire parole. E tu ne avevi tante da dirmene, da far venir fuori. Io dovevo leggere nei tuoi silenzi, in quei neri accesi e profondi che erano i tuoi pensieri. Prima o poi me li avresti raccontati e le parole avrebbero trovato modo per venir fuori, ma questo prima, ora non più.

Verranno a cercarti.
Non abbiamo più tutto quel tempo che ci permetteva di rimanere soli, a guardarci, col sospetto che ci fosse ancora qualcosa da dire, qualcosa di più profondo. Oppure era solo la mia speranza, un mio desiderio maligno che covava nella mia anima e non nella tua.
Ora sei qui, immobile, gli occhi chiusi e spero che, da un momento all’altro, tornino ad aprirsi, a guardarmi con quell’aria supplichevole e dolorante, quella che trovavo puntualmente quando, dal mio pulpito, incontravo il tuo sguardo che mi fissava come se volesse chiedermi qualcosa, come se io veramente potessi spegnere e risolvere ogni tuo dubbio, ogni mio desiderio.

Quando ti verranno a cercare io non vorrei esserci, non vorrei trovarmi più qui, vicino a te. Ma mi è terribilmente difficile abbandonarti, lasciarti solo anche per un brevissimo attimo, ora che sarai sola per sempre, ora che non ti vedrò più, ora che ti porteranno via, definitivamente via, da me.

Cosa vuoi che faccia? Continuo incessantemente a bagnarti le labbra e, per un po’, le vedo più rosse, meno pallide. Mi sembra che si stiano screpolando e corro vicino, troppo vicino. Il mio viso ti sfiora, assorbo un odore che mi pare ancora una volta soave. Era così quando ti avvicinavi a me e una volta mi hai detto, allontanandoti di scatto, il suo orecchio è gelato. Devo essere impallidito - pallido lo sono di mio - perché ho capito quanto fossi vicino al tuo viso. Accoglievo le tue parole più segrete ma accoglievo anche una spinta segreta, qualcosa che mi veniva da dentro, una parte sbagliata dell’anima, una forza nera e maligna che non mi faceva capire, che mi costringeva a interpretare senza sosta le tue parole, le parole che bisbigliavi, che cancellavi, che puntualmente strappavi. E allora ti alzavi, correvi via con furia. Non potevo fare altro che dannarmi per cercare di capire. Niente.