mercoledì 26 marzo 2014

DIECI PROBLEMI IN AMORE

Scrivere una storia significa raccontare un problema.
Le storie che non contengono problemi non sono storie, sono resoconti, descrizioni, territori che affascinano relativamente, per poco tempo e che, per lo più, non generano emozioni in chi ascolta.
Inutile dirlo: le storie d'amore non sfuggono a questa regola.
Vi propongo dieci problemi possibili che potreste utilizzare nelle vostre storie d'amore. Sono realtà tematiche che già conoscete bene ma che può essere comodo ripetere, rivedere, tenere a portata di mano.
Non hanno un ordine preciso: questo decalogo non indica priorità o preferenze e non dovete ritenerlo esaustivo - anzi, se vi vengono altre idee, altre ipotesi, comunicatemele, se vi va.

Problema 1: mi annoio.
Chi si annoia, in amore, merita attenzione. La sua noia diventerà, per l'amante, un problema. Lo sapete bene: si annoiava Madame Bovary e si annoiava Maria Davalos (recuperate la sua storia da qualche parte!). La noia fa brutte sorprese, non pensate?

Problema 2: non mi vuoi.
Non è necessario ricorrere al bellissimo testo di Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, però questo è un po' il problema dei problemi: amiamo e non siamo riamati. Funziona. Drammaticamente, dico, funziona.

Problema 3: non vogliono che io ti frequenti.
Beh, rimaniamo in ambito classico. Ovvio ma non banale. State pensando alla storia d'amore più inflazionata al mondo, giusto? Massì, quel Romeo e Giulietta di cui tanto si parla... Oggi le cose sono cambiate. Ma non dappertutto...

Problema 4: devi partire.
Partenze, allontanamenti, fughe. C'è una forza che spinge altrove, una motivazione che obbliga a non restare. Un altro atto doloroso per il vostro personaggio. Il web ci salverà? I viaggi low cost risolveranno il problema?

Problema 5: sono già impegnato/sei già impegnata.
Che colpa ne abbiamo se siamo giunti in ritardo? Qualcosa ci naviga, anche questa volta, contro. Le statistiche ci aiutano, però. Le separazioni e i divorzi sono realtà risolutive. Ovviamente dipende dall'epoca in cui è ambientata la vostra storia. L'avete visto I ponti di Madison County? Erano gli anni Sessanta, in piena provincia americana. Realtà contadina. Desideri semplici. Forze tremende (che agiscono nell'animo umano...)

Problema 6: sono geloso.
Un sentimento che, almeno a scriverlo, sembra datato. Poi accendete la televisione e siete costretti a sentire di scempi operati sui corpi - spesso femminili. La gelosia è un mostro dagli occhi verdi, lo diceva quel tale...

Problema 7: un'altra presenza attraente.
Il carisma, il fascino. Difficile chiarire queste parole. Gli psicologi tentennano - anche se qualcuno prova a dare una definizione. Fate comparire un personaggio così, nella vostra storia, e il mondo cambia improvvisamente. Anche se, a fare la sua entrata in scena, è Hannibal Lecter.

Problema 8: siamo troppo differenti.
Non è uno scherzo: le differenze fanno male, complicano la vita, a volte rendono l'aria irrespirabile. Cosa volete farci? E' materia utile per una buona storia. Immagino differenze dinamiche, non banali, non scontate...

Problema 9: siamo cambiati.
Un altro film: E' complicato. Lui, dopo essersi risposato con una giovane da schianto, si reinnamora dell'ex moglie. Il finale giustifica l'assunto: siamo troppo cambiati, siamo altre persone, con sentimenti ormai diversi. L'asse temporale è un parametro ineludibile ma, spesso, dimenticato. Cosa succede... nel tempo?

Problema 10: non so amare?
In un cortometraggio che, puntualmente, ripropongo nei miei corsi di sceneggiatura (Emilie Muller), la protagonista racconta di un suo amico che "tutti amano ma lui non ama nessuno". Forse è il problema più difficile da arginare, da risolvere, quello più cattivo e violento. Senza che accada niente, sentiamo già odore di morte.

domenica 23 marzo 2014

UNA STORIA CHE NON RICORDAVO PIU'

Ho scritto, molto tempo fa, un romanzo, romanzo che ho pubblicato solo ora.
Ci avevo lavorato su a lungo, limando e correggendo, facendolo leggere e correggendo ancora.
Lo rileggo ora, certo di trovarci dentro le leggende della mia città, rivissute in tempi moderni. Un urban fantasy - così mi hanno detto che si chiamano le storie di questo genere.
Eppure tutto è cambiato: il racconto si è trasformato, lontano da me.
Mi accorgo, solo ora, di aver scritto l'ennesima storia d'amore - come a dire che tutte le storie d'amore non possono fare a meno di raccontare di fantasmi, di fantasmi che si muovono nella città, che attraversano la strada, che percorrono marciapiedi, che si fanno illuminare dai lampioni. E' una sera d'inverno e tu sei ancora là: ti vedi mentre sorridi a chi si avvicina. Ha una giacca rossa e le manca un bottone - te lo dirà lei prima che tu te ne accorga. Il mondo, in quell'istante, è scomparso. E se oggi ritorni in quel luogo e riprendi a muoverti sullo stesso marciapiede, le cose, tutte, tornano al loro posto, e lei è ancora lì, che, sorridendoti, ti viene incontro...

sabato 22 marzo 2014

LA CREPA - capitolo primo

Prima notte

M’ha svegliato un rumore sottile. Forse me lo sono sognato. E il cuore batte come un martello. Tum-tum, tum-tum, e non mi lascia dormire, riprendere questo sonno agitato che non m’abbandona da giorni. Una paura innaturale circola nelle mie vene e non ne capisco il motivo anche se, improvvisamente, per un attimo, smetto di respirare e ho la sensazione che qualcosa aliti nella mia stanza. Deve essere uno spiffero d’aria che scivola sotto l’anta della porta e attraversa questo basso nel quale sono rinchiuso e che m’ostino a chiamare “casa”. Respiro a fatica, in modo irregolare; stavo dormendo e qualcosa m’ha svegliato. Non sono venuto fuori da un incubo, ci sto cadendo dentro. C’è qualcuno nella mia stanza. Pensiero immotivato. Qualcuno è vicino a me e, nel buio assoluto, non posso vederlo e non voglio sentirlo. Sarebbe atroce percepire un respiro non mio.
Potrei accendere la luce ma è l’ultima cosa che voglio fare: io non voglio vedere NULLA. Mi sono svegliato con un sobbalzo, come se mi stessi strozzando, e, per un attimo, non ho riconosciuto il posto, il letto. Dove sono? Ora lo so.
Cerco di riprendermi, di mettere ordine tra i miei pensieri. Devo partire da ieri sera, da quello che ho fatto ieri sera, devo ricordare se ho chiuso bene la porta, se ho messo i fermi alle finestre. Maledizione, vivo in un basso! Sono sulla strada. Apro la porta e sono sulla strada. Niente scale, niente corridoi. Solo una stanza che dà sulla strada. Magari è entrato un cane, un cane randagio, un maledetto essere randagio, che io spero sia un cane, ma anche se fosse uno stupido cane, comunque morirei di paura. E poi, e poi, perché non guaisce, perché non abbaia, perché non ansima? Non può essere un cane. Che idiota! Potrebbe essere un topo. Se un topo ti azzanna ti uccide. Ti infetta e tu ti ammali e, poi, soffri e, poi, muori. Se ora, per un attimo, non respiro, sono sicuro che sentirò un altro respiro e se questo succede io impazzisco.

Sono paralizzato da un po’. Ho provato anche a non respirare ma non sento niente. C’è il mio respiro e basta, non c’è altro.
Ecco, ecco. Ancora una volta. Ho sentito qualcosa strisciare! Non posso sbagliarmi. Se ne avessi il coraggio, allungherei il braccio, afferrerei la cornetta, comporrei il numero e chiamerei la polizia. La polizia. Verrebbe la polizia a casa mia? Se dico che c’è qualcuno in casa, che ho beccato qualcuno in casa, la polizia viene. Ma se questo qualcuno mi sente, scopre che sono sveglio, finisce che mi uccide, che mi colpisce con un’accetta. In Delitto e castigo, il giovane uccide la vecchia con l’accetta e io, quella scena, me la sono impressa bene nella mente, si è stampata così forte nel cervello, che non posso fare altro che pensarci e ci penso anche adesso, quando un assassino sta scivolando sul pavimento e viene verso di me e sta per uccidermi. Ma io cosa ho fatto di male? Niente, io non ho fatto niente e questa è solo una terribile sensazione che sto vivendo. Forse sono rumori normali, un’eco di qualcosa che è lontanissima e che a me pare un’inquietante entità che scivola sul pavimento. Sì, deve essere così e, mentre allungo la mano, non mi succede niente, ecco, vedi?, io allungo la mano e non mi succede niente. La agito nel buio davanti a me e non mi succede niente. Afferro la cornetta del telefono e non mi succede niente. Compongo il numero. “Polizia? Polizia? Sì. Sono Giona Michetti… abito in Via del Carmelo 23. C’è qualcuno in casa, sì, è per questo che parlo a bassa voce. Forse è un ladro, non lo so. Sento… qualcosa che scivola sul pavimento… sì, scivola, struscia, non so… Mandate subito qualcuno? Vi ringrazio. Io aspetto qui. Non possiamo continuare a parlare mentre mandate qualcuno? Ah, ho capito…”

Mentre due poliziotti girano per il mio minuscolo appartamento, il commissario continua a guardarmi e a sorridermi. Rigira tra le labbra una sigaretta spenta da poco.
Quando hanno finito di perquisire, lui, che per tutto il tempo è rimasto in silenzio, con le mani nelle tasche del cappotto grigio, mi chiede se sono “forestiero”.
“Abito qui da poco… Però sono napoletano. Ho vissuto gli ultimi quindici anni a Pescara…”
“E perché è ritornato, signor Michetti?”
“Mi sono separato…”
“Ah.”
“Sì, ma… di comune accordo…”
“Lei la tradiva?”
“Mia moglie?”
“No, dico lei, lei!”
“Ah. No. Per niente. Non eravamo d’accordo su di un punto: lei voleva dei figli, io no.”
“Se n’è andato solo per questo?”
“No. Lei… ha iniziato a frequentare altre persone.”
“Capisco.”
Faccio un sorrisetto ebete. Cos’avrà capito questo tizio, questo ispettore, questo poliziotto che, invece di aiutarmi, cerca di ficcare il naso negli affari miei?
“E la casa?”
“Era dei miei nonni.”
“Ah, quei due erano suoi nonni.”
“Sì… da parte di madre. Perché?”
“Lo sa che vendevano sigarette di contrabbando?”
“Ah” faccio io. “No, non lo sapevo.” È vero: non lo sapevo. Che figura di merda! I miei nonni erano contrabbandieri! Ecco perché mio padre non li sopportava e non ci andava d’accordo!
“Non mi piace la sua famiglia, glielo dico francamente.”
“Ma io faccio l’insegnante…”
“Dove insegna?”
“Alla Giovanni Verga.”
“Cos’è? Un liceo?”
“No. È una scuola elementare.”
“Ma allora lei è un maestro!”
Sì, e allora? Questo mi sta sulle scatole e, se penso che dovrebbe difendermi, mi viene la pelle d’oca. Comunque cerco di essere educato: “Sono un maestro, ma sono laureato…”
“In cosa è laureato?”
Cavolo, non me ne fa passare una! Comunque dico: “In Lettere.”
Questa volta è lui a fare un sorrisetto.
“Signor Michetti, a casa sua non c’è nulla. Avrà sognato qualcosa… Avrà avuto un incubo. Oppure sono i rumori di una vecchia casa… da quanto tempo è qui, a Napoli?”
“Da quattro mesi.”
“Ecco, vede, troppo poco tempo. Questa è una città… vecchia, molto vecchia. Ci vuole tempo per capirla. Torni a dormire e cerchi di stare calmo. Il quartiere è infuocato. Ci sono troppe cose da tenere sotto controllo. Il male si annida dappertutto. Lei è una brava persona, ne sono convinto, ma, talvolta, anche le brave persone danno da fare… Torni a dormire. Non si inquieti più!”

Prima di uscire il commissario mi guarda per un’ultima volta. Mi lancia un sorrisetto d’intesa, forse ironico. Allora mi rimetto a letto, ma vestito, completamente vestito. 

giovedì 20 marzo 2014

PARTIAMO DAL FINALE

... perché chi legge storie d'amore vorrebbe che, in qualche modo, non finissero mai.
L'amore ha questo limite: ha senso solo se infinito. Le altre storie, quelle che hanno a che fare con la semplice quotidianità, proprio non ci interessano.
Certo, è una direzione, qualcosa che tende a questa realtà "che non muore". Ma a sentire gli psicologi e tutti gli altri, l'amore, prima o dopo, tristemente, mestamente, improvvisamente, stupidamente, finisce.
I romanzi d'amore servono a questo: a testimoniarci che non è vero, che un finale - nell'amore - non c'è...
Sembra quasi la prima regola: chi scrive storie d'amore dovrebbe raccontare solo di passioni estreme, di godimenti infiniti, di desideri capaci di non spegnersi neanche quando tutto è finito. Credete che questo sia possibile?